L’Occidente è finito, scrive Berardi Bifo nella conclusione del suo editoriale sul Manifesto dal titolo “Lettera aperta agli «intellettuali» del Bar Messico” (21 agosto 2021) sugli sciagurati fatti dell’Afghanistan, in cui racconta con sintesi mirabile la storia razzista e imperialista degli USA (leader dell’Occidente nato grazie a un genocidio) e dei suoi sostenitori nostrani (da Francesco Merlo a Ernesto Galli della Loggia) che fanno finta di non conoscerla.
Sì, va bene, ma di quale occidente stiamo parlando, chiede Alberto Leiss sulle pagine dello stesso giornale qualche giorno dopo (“Ma di quale Occidente stiamo parlando?”, 24 agosto), lamentando la sovrapposizione fra Occidente e il modello capitalista che lo governa. Karl Marx, padre del pensiero socialista “scientifico”, e Stuart Mill, ispiratore di quello liberale, nonostante la diversità non erano forse anche loro rappresentanti di questa parte di mondo?
La risposta a questa domanda dei pensatori post-coloniali è oramai vecchia di 30 anni: sia il socialismo di Marx sia il liberalismo di Stuart Mill sono stati vittime dello stesso pregiudizio storicista (di origine hegeliana), a causa del quale i popoli non occidentali non erano ancora pronti – né lo sono tutt’ora, quindi mai – ad auto-rappresentarsi e dunque ad auto-determinarsi. In questo, sia il pensiero di sinistra che quello di destra hanno fatto fronte comune. Insomma, l’Occidente da questo punto di vista è stato solo uno. E i suoi ex-colonizzati se ne sono accorti: da Frantz Fanon a Dipesh Chakrabarty.
Invece, noi occidentali continuiamo a pensare che il meglio, nel bene e nel male, siamo ancora noi. Che semi di libertà e giustizia (termini tutti occidentali?) possono essere seminati nei “’punti più alti’, più sviluppati, del capitalismo stesso”, insiste Leiss con Marx. Insomma, l’Occidente sarebbe tante cose e in contrasto fra di loro. E dovrebbe utilizzare la batosta subita in Afghanistan “per far emergere qui da noi il meglio di un pensiero critico su come vanno le cose, e di comportamenti coerenti con una diversa idea di società, di politica, di convivenza”.
E perché mai, viene da chiedere. Forse non ci sono state “batoste” altrettanto dure come quella afghana nel corso dei secoli in cui l’Euro-America ha controllato il corso della storia mondiale moderna, dalla vittoria dei Giacobini neri ad Haiti nel 1801 a quella dei Vietcong nel 1975, attraverso le quali l’Occidente avrebbe potuto imparare una diversa idea di politica e di convivenza?
Siamo alla solita hybris occidentale, a causa della quale, anche nelle migliori delle intenzioni, si dà per scontato che siamo il punto massimo di civiltà e che le altre civiltà debbano tentare di rassomigliarci. Ci hanno già provato, seguendo sia la strada della sinistra (URSS e Cina) sia quella della destra (Israele?). La storia e la cronaca hanno dato qualche risposta sugli esiti di questi tentativi.
Forse dovremmo smettere di pensare solo e soltanto attraverso i nostri paradigmi, o perlomeno farlo limitandoci al nostro già grande e difficile perimetro. E iniziare a capire che anche gli altri possono avere una loro strada, magari non totalmente condivisibile o molto lontana dalla nostra, e tuttavia sempre una strada. Altrimenti, continueremo sempre a “salvare” gli altri dai loro errori ed orrori, aggiungendo i nostri: lo chiamano “white savior complex” (complesso del salvatore bianco).
A questo proposito, la scrittrice italiana di origine somala Igiaba Shego ha twittato: “Le donne afgane non vogliono essere salvate, vogliono essere appoggiate nella loro battaglia di autodeterminazione. Non cercano salvatori/salvatrici, ma alleate e alleati. Cercano compagne e compagni”.
Tutto il resto è noia o ancora dolore.