
Vi proponiamo l’intervento integrale della presidente dell’Associazione Mondiale Giornaliste e Scrittrici (AMMPE)
Care amiche, ringrazio le colleghe del Forum delle Giornaliste del Mediterraneo per quest’opportunità di poter scambiare con voi delle esperienze e allo stesso tempo le ringrazio per quest’iniziativa in questi difficili momenti.
Parlare della partecipazione delle donne e dei movimenti femministi nelle proteste più recenti in America Latina darebbe veramente per più di una giornata intera di dibattito in quanto, come d’altronde la maggior parte di questi movimento in tutto il mondo il femminismo in America Latina è molto composito, con una miriade di sfaccettature e non poche sfumature, quindi cercherò di dare una panoramica della situazione.
Probabilmente non molte persone sanno che la parola “boicottaggio” deriva da una ribellione di un gruppo di contadini dell’Irlanda rurale, soprattutto donne che nel secolo XIX svolsero una protesta contro il capitano Charles Boycott, un amministratore britannico che cercò di sfrattare gli affittuari che chiedevano una riduzione dei canoni di affitto.
La protesta prevedeva l’isolamento sociale e Boycott, disperato, fu costretto a scrivere una lettera ai quotidiani inglesi per denunciare questa situazione. Ma la lettera produsse l’effetto contrario, in quanto la protesta si è fatta ancor più dura e come scrisse un giornalista del Daily News anche se Boycott non era fisicamente minacciato, nella zona in quel momento “non c’era donna che accettassi di lavargli la cravatta o di fargli il pane”.
Da lì questa singolare protesta nella quale le donne hanno avuto un ruolo non secondario si conosce come “boicottaggio” una tecnica che ha preso il nome appunto dal suo bersaglio originale, il capitano Boycott. Negli anni successivi, la parola si estese a molte lingue, tra queste, l’italiano, spagnolo, francese, tedesco, russo e polacco. Quindi, le donne in prima fila nelle proteste.
Perché mi riferisco a questa situazione in particolare? Perché da molti secoli le donne hanno fornito ai movimenti di protesta una impronta tutta particolare di innovazioni tattiche, molte delle quali non violente ma non per questo meno incisive. Certo, non si può dire che le proteste contro Boycott siano state di matrice femminista ma sottolineano, ripeto, l’impronta particolare della protesta delle donne, questione d’altra parte che si rimonta ai tempi di Lisistrata.
Adesso, però, parleremo di femminismo in America Latina le cui origini possono essere fatte risalire ai movimenti sociali degli anni ’60 e ’70, che comprendono pure in modo più generale il movimento di liberazione delle donne, che in realtà erano rivendicazioni di tipo politico ed educativo per i diritti delle donne, ma che non riguardavano l’universo femminile da un punto de vista femminista.
Per esempio, e mi riferisco adesso al Cile: nel programma di 40 misure del governo del Presidente Salvador Allende, che era senza dubbio un programma molto rivoluzionario non si faceva il più minimo accenno alla donna in quanto tale e nei tre anni del suo governo, dal 70 al 73, soltanto una donna è stata Ministra per un breve periodo all’Ministero del Lavoro. Poi sempre durante il governo di Unidad Popular c’era una Segreteria della Donna che dipendeva dalla Presidenza della Repubblica, ma sebbene tendeva a migliorare la condizione della donna era un’organizzazione di tipo piuttosto assistenzialista. Perciò non è un caso che uno degli slogan contro il regime di Pinochet in Cile era: “democrazia nel Paese ma anche in casa”.
Certo, l’Italia non stava molto meglio riguardo la partecipazione delle donne in politica in quanto nei primi trent’anni della Repubblica i membri del consigli dei ministri sono stati soltanto uomini. E solo nel 1976 l’allora presidente del consiglio Giulio Andreotti, nel suo terzo governo, nominò la prima ministra: Tina Anselmi, destinata al ministero del lavoro e della previdenza sociale. Curioso, sempre il lavoro si addice alla donna.
In un’intervista che ho fatto all’ex Ministra ed ex Sindaca di Napoli, Rosa Russo Iervolino raccontava che una volta mentre era deputata ha chiesto di relazionare sulla legge finanziaria e i suoi amici di partito la guardarono stupiti, come te? E ha dovuto lottare per poterlo fare.
Ma torniamo al femminismo in America Latina. E’ solo a partire dagli anni ’80 che comincia ad apparire il tema della violenza domestica in quanto problema serio, ma ancora oggi le donne subiscono umiliazioni e addirittura sono derise quando osano denunciare queste pratiche, anche se a partire dagli anni ’90 si sono fatti passi da gigante riguardo questi problemi.
Gli esperti sostengono che esiste una forte correlazione tra il miglioramento dei diritti legali per le donne latinoamericane e la lotta del paese per la democrazia. Ad esempio, a causa delle proteste attive delle donne contro il governo del presidente Abdala Bucaram, che è stato Presidente tra il 1996 e il 1997, la Costituzione dell’Ecuador del 1998 ha previsto molti nuovi diritti legali per le donne.

A volte alcuni studiosi hanno affermato che “ciò che non è buono per la democrazia non è buono per le donne”, anche se non è sempre così. Per esempio, il Perù anche se aveva un regime autoritario, aveva una quota di almeno il trenta per cento di candidate nelle elezioni politiche. Poi però le donne di etnia indigena continuano a essere discriminate, a sottolineare come il divario di genere si allarghi con il fenomeno dell’intersezionalità, cioè quando la discriminazione di genere si intreccia con altre categorie sociali come l’etnia e la classe.
Allora, oltre a tutte le disastrose conseguenze che ha provocato il neoliberismo, soprattutto ma non esclusivamente in America Latina, l’emergere di modelli economici neoliberisti all’inizio del 21 ° secolo ha portato a una rinascita del movimento femminista nel mondo, che è stata accompagnata da un tentativo di dialogo femminista con altri movimenti sociali che si è espressa in una nuova caratteristica: la partecipazione femminista alla mobilitazione globale in riunioni di diversi governi e in organizzazioni multinazionali in cui si discute del futuro dell’umanità.
La maggiore visibilità delle donne nelle proteste più recenti è in parte dovuta al fatto che i movimenti non violenti di tutto il mondo sono più inclusivi. Secondo una ricerca condotta da 2 docenti di Harvard Erica Chenoweth e Zoe Marks, coautrici di un libro di prossima pubblicazione sul ruolo delle donne nei movimenti di protesta, fino al 70 per cento delle proteste non violente dal 2010 al 2014 hanno visto “un numero contenuto o molto vasto di donne in prima linea”. Queste campagne non solo si sono dimostrate più partecipate e inclusive dal punto di vista del genere, ma anche più efficaci nel raggiungere i loro obiettivi.
Adesso cominciamo a guardare più da vicino questi movimenti degli ultimi anni. Il più conosciuto è il collettivo cileno Las Tesis, un gruppo formato da 4 donne 2 delle quale lavorano in ambito teatrale mentre un’altra si occupa di moda e l’altra è insegnante.
L’interessamento per l’arte, le discipline umanistiche e la loro applicazione trasversale è stato il punto di partenza di Las Tesis, questo gruppo nato circa un anno fa in Cile nel momento delle proteste contro il governo di destra di Sebastian Piñera con un compito: quello di “tradurre” le teorie femministe in un linguaggio corporeo, musicale, performativo e replicabile dalla collettività.
L’esordio è stato il 20 novembre 2019 in una strada di Valparaíso, il porto principale del Cile, nel contesto di un festival teatrale; la performance, nella quale hanno partecipato inizialmente da poche donne, è stata filmata riscuotendo fin da subito l’interesse di molte associazioni femministe locali. La data cruciale, però, è stata il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne: a Santiago del Cile, oltre un centinaio di manifestanti hanno liberato il proprio grido di denuncia non solo contro il governo ma anche sulle logiche oppressive figlie del patriarcato, dando inizio a un’ondata inarrestabile.
Una protesta che è andata a coincidere con gli abusi e le torture da parte della polizia di stato, i famigerati “Carabineros” che hanno infierito con la violenza di sempre sui partecipanti alle proteste antigovernative che hanno scosso l’hanno scorso ma anche quest’anno il Cile: torture, stupri, colpi, accecamenti. Come lo slogan era “Chile despertó”…il Cile si è svegliato, i Carabineros sparavano direttamente agli occhi. Quasi 200 persone, in realtà 197, sono rimaste acceccate. Secondo la Commissione per i Diritti Umani del Cile, tra il 17 ottobre e il 20 dicembre dell’anno scorso ben 207 persone, tra cui donne e giovani hanno subito violenza sessuale da parte della polizia.

Ma le manifestazioni non si fermarono e la performance delle Tesis un anno fa, il 4 di dicembre di fronte allo Stadio Nazional di Santiago, carcere a cielo aperto nei primi giorni del regime di Pinochet e quindi testimone muto di torture e assassinii ha coinvolto circa 10 mila donne di tutte le età, unite a cantare Un violador en tu camino…cioè un violentatore nella tua strada. Nel testo del flash mob che poi ha attraversato le frontiere di tutto il mondo, è presente un’accusa esplicita alla violenza “di sistema” generata, quindi, da una struttura che subdolamente lo legittima. I Carabinieri, i giudici, lo stato, il presidente, sono i soggetti contro i quali puntano il dito le performer che hanno seguito le orme delle Tesis.
In tutto il mondo, da Città del Messico Londra, Parigi, Quito, Madrid, Berlino, Stoccolma, Ankara, Istanbul, New Delhi, New York, Montreal e, anche a Milano, Roma, Bologna, Napoli e Genova le donne hanno cantato: stato, lo stupratore sei te.
Vediamo fotografie di donne dell’Ecuador urlando lo slogan, (il culpa mo era mia ni donde estaba ni como vestia) la colpa non era mia, ne dove stavo, ne come vestivo.
Cosa curiosa, quando stavo cercando le immagini da scegliere per questo incontro, prima di vedere uno di questi video mi appariva la seguente frase: “queste immagini possono disturbare la vostra sensibilità”. E non sto parlando della repressione che SI potrebbe urtare la nostra sensibilità. Era una performance identica al video che abbiamo appena visto.
La Campagna Nazionale per il Diritto all’Aborto Legale, Sicuro e Gratuito (nota come La Campagna) creata in Argentina ha questo motto: Educazione sessuale per decidere, anticoncezionali per non abortire, aborto legale per non morire.
La Campagna sostiene che “depenalizzare e legalizzare l’aborto è ammettere che non c’è un unico modo valido di affrontare il dilemma etico che presuppone una gravidanza indesiderata; riconoscere la dignità, la piena autorità, la capacità e il diritto delle donne di risolvere questi problemi e dirigere le proprie vite; ed accettare che il diritto di decidere sul proprio corpo è un diritto personalissimo dal momento che quest’ultimo è il primo territorio di cittadinanza di ogni essere umano”.
L’ampliamento della depenalizzazione dell’aborto e la pratica dell’Interruzione Volontaria della Gravidanza attraversano diritti personalissimi delle donne di qualsiasi classe sociale, ma colpiscono la vita di quelle più povere. Inoltre, “le dispute riguardo l’aborto – e quindi per regolarlo – si danno nello spazio politico, tanto tra chi sostiene posizioni conservatrici quanto tra chi difende i diritti delle donne.
In questo contesto, il 6 Marzo del 2018 in Argentina è stato presentato nuovamente il progetto affinché l’aborto legale, sicuro e gratuito venga approvato al Congresso della Nazione Argentina. Ci sono state marcie di massa nelle principali città del Paese, e la stessa cosa è successa nella mobilitazione dell’8 Marzo del 2018 e dell’anno successivo, nei giorni internazionali della donna lavoratrice.
In più, dal 2015 con la campagna #nonunadimeno il femminismo è diventato un movimento politico di massa, costituitosi con incredibile forza nelle strade, gli sguardi sulle espressioni femministe non si centrano sulla necessità di legalizzare l’aborto o nelle politiche pubbliche sull’educazione sessuale integrale, ma nei corpi delle donne e le violazioni di questo corpo rispetto alla logica patriarcale: corpi nudi sfidanti, insorti, ribelli. Corpi che non si sposano con i dettami del sistema patriarcale e che vanno a intaccare le norme della “buona donna”.
“Le donne nude non ci rappresentano”, dicevano sui forum e le reti sociali altre donne che ripudiano il femminismo. È il linguaggio di performance del femminismo quello che dà fastidio alla società, molto più dei propri obiettivi e, persino, della legalizzazione dell’aborto. Non si fidano di donne che girano nude per strada, che scrivono sui muri, che non vogliono essere madri, sono attratte da altre donne, che gridano e marciano, e non hanno paura…
Intanto, nelle mobilitazioni sociali femministe, l’obiettivo va oltre la protesta, le rimostranze e molte volte le marcie finiscono col diventare una grande festa, uno spazio di incontro, di esplosione, dove i corpi goderecci si muovono al ritmo di canti, di applausi, dello stare con le altre.
È interessante seguire da vicino la parte artistica di questi incontri, la loro estetica e le loro rivendicazioni come uno spazio di lotta per i diritti delle donne e diversità, ma anche di gioia per ritrovarsi e riconoscersi come femministe.
Perché parliamo di performance quando analizziamo le marcie femministe? Perché le marcie femministe non usano solo tamburi e canti popolari, come nel resto delle mobilitazioni popolari, ma usano anche un’estetica determinata, corpi dipinti e modellati per l’occasione, spettacoli di strada, danze, rituali, improvvisazioni teatrali e lavori preparati.
Nel caso dell’Argentina e delle marcie a favore della legalizzazione dell’aborto, loro si tingono il corpo di verde (che è il colore adottato come emblema della Campagna Nazionale per il Diritto all’Aborto Legale, Sicuro e Gratuito) e anche di viola (colore che storicamente rappresenta il movimento femminista).
Gli abiti, il luccichio, i cartelli, i corpi portano questi colori: per questo il movimento femminista di lotta per l’aborto legale su conosce anche come come “Marea Verde”. La performance permette l’esperienza del momento, dell’istante, è lì dove l’immediatezza acquisisce un significato. E quei corpi “accorpati” ricreano molteplici significati che, nonostante la loro espressione sia effimera, rimane nell’immaginario femminista nazionale e si ripete lungo tutto il Paese.
Lottare per l’autonomia dei corpi è la chiave sullo sfondo di una lotta femminista. Resistere alle oppressioni patriarcali ed ai controlli corporali è lo stendardo di un movimento che rende possibile l’accesso a molteplici libertà. Ogni 8 Marzo le donne, siano esse etero, lesbiche, trans, bisessuali o non binarie, marciano sullo sfondo del Giorno Internazionale della Donna Lavoratrice e ogni 3 giugno per la campagna Non Una Di Meno. Tuttavia, da due anni, in Argentina viene mobilitata fortemente la lotta per l’aborto legale, sicuro e gratuito come diritto ad acquisire in una società che controlla, reprime e punisce i corpi delle donne e le dissidenze.

Le immagini rivelano cosa diventano questi eventi e quanto ci sia di festivo. Il femminismo sa che il patriarcato, il capitalismo e il colonialismo ci hanno saccheggiato, nonostante rivendichi l’allegria come bandiera. Ed è giustamente la gioia ciò che si manifesta in questi incontri di massa e le mobilitazioni diventano una grande festa. Si reclama un diritto molto personale, ma lo si fa dall’unione, dalla comunità dall’espressione collettiva ed è per questo che si trasforma in un insieme di performances o in una gran performance collettiva.
A proposito della legalizzazione dell’aborto in Argentina poche giorni fa dopo la proposta dell’Esecutivo per legalizzare l’interruzione di gravidanza, il Presidente Alberto Fernández ha detto scherzando, ma mica tanto. “Speriamo che il Papa non si arrabbi troppo”. Invece si è arrabbiato e 4 giorni fa ha inviato una lettera alle donne contrarie a questa legalizzazione. Poche righe autografe, ma che hanno molto incoraggiato le argentine che sabato scorso hanno manifestato en forma massiva contro questo progetto di legge.
Bene, come affermavamo prima, il femminismo non è univoco e ha numerose sfaccettature. Per esempio mi ha sorpreso molto il fatto che alcune organizzazioni femministe boliviane applaudissero il colpo di stato che un anno fa ha rovesciato il governo costituzionale di Evo Morales, che è stato costretto a fuggire e ha trovato asilo politico in Messico. E adesso che le recenti elezioni hanno decretato la vittoria del candidato del partito di Morales e questo ha potuto rientrare in Bolivia, queste stesse femministe l’hanno salutato con un “Non sei benvenuto, Morales”!!!.
Poi, cominciando a analizzare da più vicino il fenomeno femminismo in Bolivia da una parte bisogna riconoscere che Morales non è proprio il paladino dei diritti delle donne ma il fatto che un’antropologa femminista argentina, Rita Segato abbia praticamente giustificato il colpo di stato de destra dell’anno ha suscitato enorme scalpore in Bolivia, evidenziando le divisioni esistenti anche tra le forze popolari, in particolare in ambito femminista.
Un gruppo di donne indigene di diverse etnie…donne del Sud, donne dei territori ancestrali offriamo la nostra parola fiorita a sostegno del Presidente Evo Morales Ayma che, in virtù del voto popolare, continua ad essere presidente dello Stato Plurinazionale della Bolivia hanno scritto un anno fa. Questo gruppo accusa anche Segato di essere espressione di un «femminismo bianco», fatto che secondo loro, ha evidenziato, tra l’altro, come «per una donna indigena che vive il maschilismo e che soffre la violenza nella vita quotidiana non è la stessa cosa trovarsi di fronte a medici che violano i suoi diritti o di fronte a un servizio di salute laico e rispettoso della salute ancestrale.

Poi, come ha spiegato una delle principali rappresentanti del femminismo comunitario, Adriana Guzmán, benché non siano di certo infondate le critiche al maschilismo di Morales (come un Berlusconi andino con fidanzata 19 novenne (lui ha 61) con la quale ha un rapporto da 5 anni, quindi quando la ragazza era ancora minorenne), comunque, dice Guzman, Morales è una persona in cui ha potuto rispecchiarsi la lotta delle organizzazioni sociali.
Mi sonno soffermata anche su questo tema per attirare l’attenzione sul fatto che mentre prima questi aspetti della vita privata passavano praticamente inosservati, oggi fortunatamente, in genere non è più così. Ma diamo uno sguardo alle lotte femministe delle donne in Bolivia, il tema del nostro incontro.
Dopo circa un mese dall’inizio degli scioperi femministi in Argentina di cui avevamo parlato anche in Bolivia un primo gruppo di donne femministe ha deciso di unirsi alla protesta di Ni Una Menos, organizzando una marcia nell’ottobre del 2016. Nei successivi mesi, Ni Una Menos (conosciuta come NUM) è cresciuta soprattutto nella città di La Paz, diventando una piattaforma capace di riunire differenti collettivi e organizzazioni di donne.
Il primo anno di vita della rete si è caratterizzato per la ricorrenza di discussioni interne riguardo alla natura del movimento, alla divisione dei compiti e delle responsabilità e ai meccanismi di lavoro. Durante la prima marcia convocata da NUM Bolivia, nell’Ottobre 2016, tentarono di unirsi deputate e senatrici sia della linea ufficiale governativa, sia dell’opposizione di destra, ma le dirigente di NUM hanno rifiutato entrambe, in quanto hanno voluto ribadire che questo movimento di donne è autonomo e indipendente dal governo e da tutti i partiti e anche da tutte le istituzioni di donne finanziate dalla cooperazione internazionale.
In Bolivia, il movimento delle donne ha grossomodo 3 correnti di pensiero: quella del femminismo istituzionalizzato, dipendente dalla cooperazione internazionale; un secondo gruppo quello delle organizzazioni di donne contadine e indigene noto come “Las Bartolinas” che è l’organizzazione nazionale più numerosa di donne. Ed è questo movimento che insieme ad altre organizzazioni miste (di uomini e donne) contadine e indigene, hanno reso possibile che il partito de sinistra MAS (Movimento per il Socialismo – Strumento Politico per la Sovranità dei Popoli) di Evo Morales sia arrivato al governo nel 2006.
La terza corrente sono le femministe e i collettivi femministi di strada, che rivendicano autonomia e indipendenza sia dei partiti che delle istituzioni: si fanno chiamare “Articulaciòn Feminista Pluri-Diversa”, dove “pluri” serve a mostrare e nominare la presenza delle 36 diverse nazionalità indigene in Bolivia, mentre “diversa” allude alla pluralità di orientamenti e identità sessuali.
E un gruppo, piattaforma la chiamano di gruppi diversi, ognuno dei quali si occupa di differenti tematiche, come il femminismo comunitario, portato avanti da indigene e contadine, le collettive lesbiche, le eco-femministe, le educatrici e così via. Oltre ai corsi di formazione, all’organizzazione di rete d’appoggio e intercambio di servizi e informazioni tra donne, questi collettivi sono anche impegnate in un lavoro di appoggio e accompagnamento nei tribunali o in procura in caso di violenza.
In Bolivia, come in quasi nessun altro Paese dell’America Latina la storia del femminismo ha sempre incrociato i temi di classe e di razza, per via della conformazione coloniale del Paese stesso. Non è possibile parlare di femminismo senza considerare il protagonismo delle popolazioni indigene, anche se fino agli anni ‘80 per i partiti di sinistra tradizionale, gli indigeni erano solo contadini senza caratteristiche specifiche di etnia (d’altronde il tema dei popoli originari è apparso in tempi relativamente recenti) .

Questa mentalità impedì a molti di accorgersi della trasformazione di un numero considerevole di contadini in operai e della conseguente nascita di una classe che avrebbe travolto gli equilibri sociali come erano conosciuti. E’ innegabile che in questa trasformazione prese vita il femminismo boliviano come forza organizzata, con una forte influenza del femminismo anarchico e a partire dal protagonismo delle indigene.
Negli anni ‘20 venne istituita la “Federación obrera femenina”, che si proponeva di rispondere al duplice problema della violenza nelle case e nelle fabbriche, fino a quel momento completamente invisibile. Ricordiamoci por che nella decade del 70 la maggior parte dei Paesi sudamericani erano governati da regimi militari. E Bolivia non era un’eccezione.
Negli anni della dittatura, tra il 1971 e il 1982, le donne indigene e operaie giocarono un ruolo fondamentale nella Resistenza, come nel caso della “casalinga” Domitila Chungara, diventata famosa a livello internazionale grazie al suo libro “Si me permiten hablar”. Domitila ed altre donne i cui mariti o genitori lavoravano nelle miniere boliviane organizzarono un comitato di casalinghe delle miniere capace di organizzare scioperi di massa e in grado di mettere in seria crisi la dittatura, avviandola al termine.
Le rivendicazioni fondamentali spaziavano dalla richiesta di salario degno a quelle di libertà politica, fino al ritorno degli esiliati. Nel 1992 una prima marcia indigena per la terra e la dignità pose con forza il problema del riconoscimento dell’esistenza e della diversità indigena. Era un periodo di fermento generale per gli indigeni del continente, basti pensare alle lotte del Movimento Zapatista del ‘94. Nel 2006 l’Assemblea Costituente riconobbe il carattere plurinazionale della Bolivia. Questo processo lasciò un segno indelebile anche sul femminismo in senso stretto, sul processo di soggettivazione delle lotte delle donne.

Una delle principali rivendicazioni del movimento femminista boliviano è il diritto all’aborto in quanto ancora oggi abortire è considerato reato se non in caso di stupro. Proprio a inizio settembre quest’anno il governo di destra che ha rovesciato Evo Morales aveva approvato una legge che rendeva ancor più dure le pene per le donne “colpevoli”, che non potevano più richiedere gli arresti domiciliari, ma finivano finiranno direttamente in carcere, magari lasciando a casa gli altri figli e le persone che dipendono da loro.
Ha fatto molto scalpore la morte di una bambina di soli 12 anni, rimasta incinta a seguito di uno stupro, alla quale i medici hanno rifiutato di effettuare l’aborto. Per casi simili le donne boliviane portano avanti la campagna #niñasnomadres.
Speriamo che il nuovo governo progressista che ha recentemente vinto le elezioni in Bolivia dia anche attenzione speciale a questo grave problema.
Come si sa, la Colombia è un Paese con un conflitto armato interno che dura da cinquant’anni, quindi la maggior parte del dibattito politico è segnato dal tema del conflitto armato, che rimane il primo problema con cui confrontarsi. Poi, dopo il fallimento del processo di pace, purtroppo non si pecca di pessimismo se si afferma che questa situazione di conflitto armato continuerà ad esserlo ancora a lungo. E’ una guerra poco conosciuta e difficile da raccontare per via della pluralità degli attori armati coinvolti.

È una guerra possiamo dire di “bassa intensità, guerra sporca” con poche ma definitive e disastrose certezze: la violenza diffusa e continua è scaricata sulla popolazione civile soprattutto sulle donne che hanno subito brutalità, sparizioni, esecuzioni, abbandono forzato delle case, violenze sessuali, prostituzione forzata, schiavitù domestica.
Il controllo dei corpi delle donne, già largamente attuato in tempo di pace, viene inasprito nel contesto del conflitto armato e della militarizzazione della società. Per questo motivo la maggior parte dei gruppi femministe si battono per il processo di pace, come del resto praticamente tutti i movimenti sociali
La Ruta Pacifica de las Mujeres è una Rete femminista pacifista da molti anni attiva in Colombia che nel 2013 ha pubblicato a Bogotà con la collaborazione della Commissione Verdad y Memoria, costituita dalla Ruta in seno al Tribunale internazionale delle Donn,e un dossier che porta un approccio femminista a una giustizia riparatrice.
Il Tribunale delle Donne è uno spazio offerto alla testimonianza delle donne, uno spazio per ascoltare le loro voci, per riconoscere la loro resistenza. Il primo fu creato nel 1992 a Lahore, in Pakistan. Da allora, sono sorti circa 40 tribunali nel Sud del mondo: Asia sudorientale, Africa, America latina. Nascono perché il sistema giuridico istituzionale non sempre è dalla parte delle vittime, spesso non riconosce e non sanziona la violenza contro le donne o contro coloro che contano poco in termini di potere economico e politico.
In tre anni di lavoro, Verdad y Memoria ha raccolto le testimonianze di oltre mille donne di differenti età, luoghi di provenienza, etnie, accomunate dalla sofferenza e dalla richiesta di politiche di riparazione alla violenza della feroce guerra interna colombiana.

Jennifer Vannegas, docente e dirigente del gruppo colombiano La Morada que partecipa nella rete Ni una menos, ha spiegato in un’intervista che la Repressione, povertà e lotta armata causano anche un problema molto forte di spostamenti forzati, durante i quali il tasso di violenza contro donne e bambini si alza, perché aumentano le condizioni di vulnerabilità. Bisogna capire che il conflitto armato ha segnato profondamente le strutture della vita sociale in Colombia e anche che la violenza maschilista risente dell’influenza del paramilitarismo.
Un caso emblematico è quello del femminicidio di Rosa Elvira Cely, uccisa nel Parco Nacional di Bogotà nel 2012. Rosa Elvira non è stata solo stuprata e uccisa, ma anche impalata secondo una pratica tipica dei paramilitari. In Colombia le pratiche di guerra hanno ormai lasciato un segno così profondo da essersi massificate nel privato e nella violenza domestica.
In questo contesto e’ importante anche segnalare che si sta generando un tipo di violenza maschilista sempre più complesso, crudo e offensivo. In diversi casi recenti, alla brutalità dello stupro si è aggiunta la violenza agita nei confronti del compagno presente, costretto a guardare. Per la repressione, eufemisticamente chiamata “gestione dell’ordine pubblico”, vengono usualmente utilizzate pratiche di guerra. Perdere un occhio in una manifestazione è un rischio abbastanza frequente in Colombia…così come in Cile e chissà in quanti altri luoghi nel mondo.
Sempre dalla Colombia, una proposta delle donne indigene spiega perfettamente come nelle regioni latinoamericane il patriarcato coloniale abbia accentuato i tratti del patriarcato originario anteriore alla colonizzazione, distruggendo l’articolazione dei rapporti pre-esistenti, producendo un risultato sincretico che rende molto complessa la realtà delle donne in lotta contro i sistemi di oppressione moderni e contemporanei. Il risultato della colonizzazione e della schiavitù è stata la permanenza di un regime gerarchico rigido, nel quale le donne indigene e nere sono sul gradino più basso di un sistema razzista e patriarcale.
Passiamo adesso al Brasile dove la resistenza ha il volto delle donne: contadine, indigene, nere, pescatrici, lavoratrici urbane, giovani e meno giovani. Erano in più di centomila un anno fa a Brasilia, per la sesta edizione della «Marcia delle margherite», la più grande mobilitazione a livello latinoamericano delle donne dei campi, delle foreste e delle acque. L’edizione più partecipata tra quelle che, dal 2000, si ripetono ogni 4 anni nella capitale in ricordo di Margarida Maria Alves, la presidente del Sindacato dei lavoratori rurali di Alagoa Grande, in Paraíba, assassinata il 12 agosto 1983, davanti agli occhi del figlio e del marito, da sicari al soldo dei grossi proprietari terrieri i famigerati fazendeiros della regione. ´

La difesa della salute, dell’educazione e delle foreste è stata anche al centro della prima storica Marcia delle donne indigene, poi confluita nella Marcia delle margherite. Promossa dall’Apib (l’associazione dei popoli indigeni del Brasile) sul tema «Territorio: il nostro corpo, il nostro spirito», la protesta ha visto la partecipazione, sempre a Brasilia, di oltre 2 mila donne provenienti da 113 popoli originari, decise a resistere alla politica genocida ed ecocida dell’attuale governo del ex militare Jair Bolsonaro.
Riforma delle pensioni, mobilitazioni e movimento sindacale nell’ora delle sfide è quanto richiesto dalle donne brasiliane nella più grande agitazione di lavoratrici rurali dell’America Latina dell’anno scorso, che ha invaso la città di Brasilia per due giorni. Arrivate dalle campagne, dalla giungla e dalle città, decine di migliaia di donne reclamano i propri diritti come cittadine e come lavoratrici.
È importante dire, basandosi sugli studi dell’antropologa Vilena Aguiar, che l’emergenza di diversi movimenti di donne rurali è iniziata negli anni ’80, partendo specialmente dai processi di formazione offerti dalle Comunità Ecclesiali di Base e dai gruppi pastorali, influenzati dalla Teologia della Liberazione.
In quel momento, né lo Stato né i sindacati riconoscevano le donne come lavoratrici rurali, e questo impediva loro di accedere ai diritti del lavoro, della pensione e alla sicurezza sociale, venendo così escluse dai diritti al congedo per maternità, pensionamento, sindacalismo, tra gli altri. Ciò significava che il lavoro della donna della terra, nonostante fosse indispensabile per la famiglia, non aveva valore e veniva visto semplicemente come un “aiuto” per il marito.
La coscienza di quella condizione sociale di sottomissione e la consapevolezza dell’importanza di avere una partecipazione politica fu risvegliata nelle lavoratrici rurali, come affermavamo, dalle Comunità Ecclesiali di Base e dalle pastorali, che coinvolsero affinché contribuirono iniziassero la loro militanza in gruppi di donne e, in seguito, nei loro movimenti propri. Una delle rivendicazioni presentate all’epoca era il riconoscimento sociale e politico della lavoratrice rurale, ottenuto con la Costituzione del 1988.
La “Marcia delle Margherite” si forma a partire dalle donne e che partecipavano nel coordinamento della Commissione Nazionale delle Lavoratrici Rurali assieme a diverse organizzazioni femministe, movimenti di donne, centrali sindacali e organizzazioni internazionali. Organizzata nel 2000 per la prima volta, in adesione al movimento “Marcia Mondiale delle Donne”, la parola d’ordine era “2000 ragioni per marciare contro la fame, la povertà e la violenza sessista” e ha contato inizialmente sulla partecipazione di 20mila donne; numero aumentato gradualmente nelle marce seguenti del 2003, 2007, 2011 e 2015.

E quale sarebbe il profilo di queste lavoratrici che partecipano alla marcia? Secondo uno studio del 2011, la maggior parte delle partecipanti (56,7%) aveva tra i 33 e i 54 anni, seguite dalla gioventù rurale, di età compresa tra i 15 e i 32 anni (24,3%) e il 19% aveva più di 55 anni (età con la quale possono andare in pensione); la maggior parte si identificava come nera, ovvero un 77,6%, percentuale poco più alta del 60% registrato dal Censimento Demografico del 2010. Questa auto-affermazione della propria identità etnica forse indicherebbe il grado più alto di politicizzazione delle intervistate.
Specialmente nel caso delle donne impiegate nel settore rurale, si è osservato che l’82% aveva la propria attività agricola come lavoro principale e l’89% lavorava nella produzione per l’autoconsumo e in quella per la vendita.
Dopo quell’importante mobilitazione, le donne rurali hanno conquistato molte rivendicazioni, tra di esse:
- La possibilità di assegnazione del titolo della proprietà degli insediamenti rurali destinati alla riforma agraria a nome delle donne (e non solo degli uomini), che significa un’uguaglianza di genere nella politica di accesso alla terra;
- Creazione del Programma Nazionale di Documentazione della Lavoratrice Rurale, con il fine di ridurre la grande quantità di lavoratrici della terra prive di documentazione di base;
- Formazione del Forum Nazionale di Elaborazione di Politiche per l’Affronto alla Violenza contro le Donne della Campagna e della Foresta.
Dal 2016 queste ed altre conquiste sono passate a essere minacciate con la nuova correlazione di forze, e dopo l’ascesa di Bolsonaro tutto è precipitato. Perciò le donne hanno marciato come protesta contro le misure antipopolari, (Oserei direi anche contro i Diritti Umani) del governo. Lo slogan della marcia del 2019 era “Margherite in lotta per un Brasile con sovranità popolare, giustizia, uguaglianza e libero dalla violenza”. Tra le rivendicazioni fondamentali: per una vita libera da ogni forma di violenza, senza razzismo né sessismo; per una educazione antisessista e antirazzista e per il diritto all’educazione della campagna; per democrazia e uguaglianza e rafforzamento della partecipazione politica delle donne.
A questa marcia hanno partecipato anche delle religiose “È stata una nuova esperienza; è stato meraviglioso, con donne e uomini provenienti da tutto il Brasile e da 27 paesi, con gli stessi sogni e desideri, per un Brasile con sovranità popolare, democratico, giusto e libero dalla violenza” hanno detto due religiose appartenenti alle sorelle di San Giuseppe di Chambéry e del Piccolo Disegno.
La lotta delle donne brasiliane continua in quanto come dicevamo prima, nulla è cambiato se non in peggio: la guerra dell’agrobusiness contro i lavoratori rurali, le comunità indigene, i popoli tradizionali e i difensori dell’ambiente prosegue e si inasprisce, sotto la convinta benedizione del governo Bolsonaro. E quanto il clima si sia fatto pesante per la lotta sociale, lo ha mostrato bene l’impiego – incostituzionale – della forza nazionale di pubblica sicurezza deciso dal ministro della Giustizia Sergio Moro.
«Mai come ora la soluzione alle nostre rivendicazioni dipenderà dalla nostra lotta e da noi stesse», ha affermato Atiliana Brunetto della direzione nazionale del Movimento dei senza-terra. Rivendicazioni che vanno dalla piena partecipazione politica delle donne al diritto all’educazione nei campi e nelle aree indigene, dal sostegno all’agricoltura familiare alla previdenza sociale e alla salute pubblica, fino alla preservazione dell’ambiente e della biodiversità.
La difesa della salute, dell’educazione e delle foreste è stata anche al centro della prima storica Marcia delle donne indigene, poi confluita nella Marcia delle margherite. Promossa dall’Apib (l’associazione dei popoli indigeni del Brasile) sul tema «Territorio: il nostro corpo, il nostro spirito», la protesta ha visto la partecipazione, sempre a Brasilia, di oltre 2 mila donne provenienti da 113 popoli originari, decise a resistere alla politica genocida ed ecocida dell’attuale governo del ex militare Jair Bolsonaro.
Dal Brasile al Messico: Negli ultimi 2 anni, il Movimento femminista ha cambiato volto in Messico dall’occupazione, nel 2019, dell’Università Autonoma del Messico (UNAM ) da parte di alcune giovani il cui asse centrale era la denuncia e lo stop alla violenza sulle donne. Si tratta di un movimento “di tipo nuovo”: con protagoniste diverse e, in molti senti rispetto ai movimenti femministi precedenti, senza una leadership specifica e unificata, e che si è diffuso con un linguaggio “proprio”, diretto e di confronto, che ha ricorso persino all’uso della violenza come mezzo di “comunicazione e agitazione”.
Si tratta di un movimento che è riuscito a impressionare l’opinione pubblica ed ha ottenuto obiettivi significativi, come richiamare l’attenzione delle autorità e generare certi cambiamenti istituzionali e normativi.

Durante alcuni mesi, il movimento femminista nato in UNAM durante il 2019 e il 2020 ha acquisito risonanza nei media, ha generato adesioni da parte di nuovi gruppi e associazioni femministe e non, ha convocato settori più ampi e varcato i confini dell’università. Una delle particolarità degne di nota è che dall’inizio NON è stato un movimento unitario, omogeneo e chiaramente strutturato. Persino all’interno della stessa università è stato, sin dall’inizio, un raggruppamento di diversi gruppi di donne che si riconoscono e si fanno chiamare con diversi aggettivi attraverso i quali indicano il proprio tratto distintivo.
La diversità di espressioni all’interno del movimento dell’UNAM è qualcosa che si è riprodotto e potenziato nell’ampio movimento sviluppatosi nello spazio pubblico della città. Questo fatto si è reso visibile in special modo nella Convocazione per l’8 marzo di quest’anno.
Questa volta, la marcia ha acquisito dimensioni mai viste prima in una manifestazione femminista in Messico. L’affluenza (che molti analisti calcolano sia stata sul mezzo milione di persone), la confluenza di diversi tipi di femminismo, vari gruppi della società civile ed un’alta proporzione di popolazione “in generale”, che si è unita in qualità di simpatizzanti recenti del movimento, e l’intensa energia condensata durante circa 6 ore, hanno costituito uno scenario totalmente nuovo e di grande influenza. A tutto questo si aggiunge la presenza maggioritaria di giovani ragazze che in questa occasione hanno senza dubbio avuto il ruolo di protagoniste principali.
Dalla propria convocazione, si è manifestata la diversità di femministe che hanno lanciato appelli, si sono messe magliette identiche per esprimere con forza il bisogno di “farne parte”. Durante la marcia, una delle particolarità che ha colpito di più è stata la composizione multicolore delle partecipanti, tramite la diffusione di fazzoletti e magliette di colore viola, verde e rosa, che hanno messo in rilievo l’unione di diverse necessità legate al femminismo e al movimento delle donne.
Senza dubbio il colore predominante è stato il viola, che risaltava la centralità della richiesta di non violenza verso le donne, condivisa da gruppi femministi e non; ma anche il colore verde si è distinto, legato più alle lotte femministe per i diritti sessuali e riproduttivi, in particolare per l’aborto libero, sicuro e gratuito, che è già un diritto solo in alcune cittá mel Messico, ma non nella maggior parte del Paese. E, nonostante in proporzioni minori, la presenza del colore rosa ha evidenziato le richieste dei gruppi trans contro le esclusioni e la violenza omofoba.
La diversità si è dimostrata anche riguardo ai gruppi della società civile e della popolazione partecipante in generale, oltre alle femministe: raggruppamenti di vittime della violenza e della sparizione forzata, sui diritti umani, ambientalisti, nativi, di lavoratrici, studenteschi, collettivi artistici e culturali, tra gli altri. Un fatto davvero inaspettato e sorprendente è stato l’“apparizione” improvvisa di voci e contingenti di settori conservatori e della destra politica del Paese, normalmente critici furibondi del femminismo, che si sono uniti al clamore per la non violenza ma non hanno lasciato passare l’opportunità per diffamare il governo e la sua politica.
Nonostante non ci sia stata una convocazione unificata per la marcia, l’organizzazione di quest’ultima ha fatto sì che si riuscisse ad avere una certa struttura e sono stati resi noti, con anticipo, alcuni criteri importanti (anche questi una novità) per lo sviluppo della marcia. Così si è data la priorità e si è ceduta la prima linea ai gruppi di madri di vittime di violenza di genere e di desaparecidos nel Paese, poi sono seguiti i raggruppamenti collettivi delle femministe “separatiste” (ovvero le femministe misandriche, che non ammettono uomini tra le loro fila). Più dietro ancora c’erano le organizzazioni femministe “miste”, e infine c’erano i vari collettivi e la popolazione in generale. Questo fa rendere conto che anche con l’apertura e diversità di richieste, il punto centrale era sulla violenza di genere.
Com’è noto, nel corso dell’ultimo anno il tema della violenza di genere ha avuto una notevole risonanza e si è svelato in varie dimensioni; in questo senso, gli slogan presenti in questa marcia dimostrano questo fenomeno.
Entre las consignas que más se repetían están: “Existo porque resisto”, “Tiemblen los machistas, que América Latina será toda feminista”, “Si tocas a una respondemos todas”, “Somos la voz de las que ya no están”, “Nos sembraron miedo, nos crecieron alas”, “Ni la tierra ni las mujeres somos territorio de conquista”, “Mi cuerpo, mi decisión”, ”Vivas nos queremos”, “Fue el Estado”, “Ni una más, ni una más, ni una asesinada más”, “Calladita no te ves más bonita”, “No somos histéricas, somos históricas”, “Me cuidan mis amigas no la policía”, “Quiero vivir sin miedo”, “Si tocan a una nos tocan a TODAS”, “El Estado opresor es un macho violador”, “Mujeres indígenas, mujeres visibles en defensa de nuestros territorios”, “Mujer, hermana si te pega no te ama”.
Sulla lotta delle donne indigene permettetemi di citare stupenda frase della scrittrice messicana Elena Poniatowska : Prima che gli Stati Uniti pretendessero di mangiarsi tutto il continente, la resistenza indigena alzò scudi lavorati in oro e pennacchi splendenti di piume di quetzal, e li innalzò molto in alto quando le donne del Chiapas, prima furtive e umiliate, dichiararono nel 1994 di voler scegliere loro il proprio uomo, guardarlo negli occhi, avere tutti i figli che volessero e non essere scambiate per una bottiglia d’alcol.

Un tratto particolare che adesso si sta estendendo a tutto il movimento femminista nn solo latinoamericano è la fortissima influenza di forme espressive artistiche e musicali nelle sue pratiche. Teatro, musica, performance, grafitti sono strumenti che permettono di portare le tematiche di genere nelle strade e nelle piazze, avvicinando molte persone.
Per finire, ricordo due delle principali aree di interesse per il movimento femminista attualmente in America Latina: la legalizzazione dell’aborto e la fine della violenza contro le donne. “Siamo un volto collettivo”, sta diventando quasi uno slogan che percorre gran parte dei 10 mila kilometro che vanno dal Rio Grande, in America del Nord al capo Horn nell’estremo sud perché la violenza è un elemento sociale e strutturale e non un problema individuale da fronteggiare da sole; si sta anche cercando di elaborare una maschera o un elemento simbolico che permetta di trasmettere questo messaggio anche nelle piazze.