La giornalista Maria Grazia Mazzola riporta l’ammissione della polizia slovacca: sui Vadalà e gli affari nel Paese si sapeva tutto dal 2013
di Francesca Rizzo
Chi è Antonino Vadalà, e quali sono i suoi legami con i più alti livelli della politica e dell’imprenditoria slovacca? Se l’era chiesto Jan Kuciak, prima di essere ucciso insieme alla fidanzata Martina Kusnirova il 21 febbraio di un anno fa. A queste domande, come riporta su Stampa Romana la giornalista Rai Maria Grazia Mazzola, la polizia slovacca avrebbe potuto rispondere sin dal 2013.
Ma soprattutto, la stessa polizia slovacca avrebbe potuto, e dovuto, fermare Vadalà, che – è l’ufficiale di collegamento slovacco a scriverlo nero su bianco, il 2 agosto 2013 – in Slovacchia aveva fondato una ‘ndrina, una costola della ‘ndrangheta calabrese, alla quale lui era legato.
Dei collegamenti tra Vadalà, da diversi anni residente in Slovacchia, e le cosche calabresi aveva parlato anche Pavla Holcova, collega di Jan Kuciak ed ospite all’edizione 2018 del Forum of Mediterranean Women Journalists. Insieme a Kuciak, Holcova lavorava da 18 mesi sui legami tra Vadalà, il premier slovacco Robert Fico e Mària Troškovà, la modella, socia d’affari di Vadalà e poi pedina dello staff del primo ministro.
“Abbiamo chiesto a lungo al governo, all’ufficio stampa, quale fosse la qualifica di questa modella, perché sia diventata assistente del primo ministro, o se avesse un nulla osta di sicurezza, visto che assisteva a tutti i meeting diplomatici di alto livello, e ai vertici sulla sicurezza. Ma ci hanno sempre negato qualunque informazione su di lei”, ha raccontato al Forum Holcova, che nel frattempo indagava anche su Antonino Vadalà e sulle sue radici calabresi: “Ho chiamato i miei amici dell’IRBI, un gruppo di giornalisti investigativi italiani – ha ricordato –, e ho chiesto loro se Antonino Vadalà, che vive in Slovacchia, potesse essere parente di quell’Antonino Vadalà morto in carcere, che negli anni Novanta controllava Bova Marina ed era uno dei più potenti esponenti della ‘ndrangheta, affiliato al clan Libri”.
“Quel che noi non sapevamo, mentre scrivevamo della famiglia Vadalà, dei suoi legami con la Slovacchia e delle truffe per ottenere fondi europei – ha sottolineato Pavla Holcova lo scorso novembre – è che proprio sui Vadalà era in corso un’indagine della polizia italiana”.
Non lo sapevano, i giornalisti che indagavano sulla corruzione dei vertici politici ed imprenditoriali del loro Paese, mentre ne era perfettamente informata la polizia slovacca. “Oltre a errori amministrativi, potrebbe essere stato commesso un reato”: questa l’ammissione del portavoce delle forze dell’ordine, Michael Silvka, riportata da Maria Grazia Mazzola.
Sempre Mazzola, autrice dello scoop che dimostrava il pedinamento di Kuciak prima dell’omicidio, il 3 febbraio scorso scriveva: “Antonino Vadalà, in un primo momento sospettato per i due omicidi Kuciak-Kusnirova e poi scagionato, è stato in seguito arrestato su ordine della Procura di Venezia per traffico internazionale di droga col Sudamerica. Ma c’è chi giura che siano implicati anche personaggi di primo piano slovacchi. Mentre la Dda di Reggio Calabria indaga sui Vadalà da tempo e ci saranno sorprese. Dove puntano? Droga e poi cos’altro?”.
Una rete di bugie, segreti, insabbiamenti, che ha avuto come diretta conseguenza l’assassinio di chi era ormai pronto a pubblicare tutta la storia, scatenando un terremoto politico in Slovacchia. “Chi bloccò quell’indagine? – chiede oggi Mazzola –. Non c’è solo l’imprenditore slovacco Marian Kocner dietro l’omicidio Kuciak-Kusnirova, ma ci sono altri mandanti legati a quella inchiesta sui Fondi europei che riguarda anche questi rapporti di polizia del 2013”.
Ancora al Forum 2018, Pauline Ades-Mévèl, portavoce Reporters Senza Frontiere per UE e Balcani, aveva chiesto maggiori tutele per i giornalisti impegnati in inchieste sulla corruzione, anche all’interno dell’Unione Europea: “Dobbiamo accertare fino a che grado le autorità nazionali possano essere coinvolte nelle inchieste, e chiederci cosa succederebbe se gli Stati membri fossero in qualche modo legati: se, in altre parole, l’interesse di Stato fosse simile, o coincidesse, con quello dei potenziali aggressori. Occorre quindi chiedersi se le autorità abbiano davvero un ruolo indipendente”.
Daphne Caruana Galizia, Jan Kuciak, Viktorija Marinova: tre giornalisti che si occupavano di corruzione, della triade governo-imprenditoria-malavita a Malta, in Slovacchia, in Bulgaria. Tre omicidi in meno di un anno, e proprio in questi giorni il nuovo rapporto di Freedom House sulla libertà di stampa nel mondo conferma quanto è già sotto gli occhi di tutti: all’interno di un quadro GLOBALE in cui “la libertà dei media si è progressivamente deteriorata nell’ultima decade, con nuove forme di repressione che hanno preso piede nelle società più aperte come negli Stati autoritari”, “il trend è più acuto in Europa, prima un bastione di libertà consolidate”.
La richiesta di maggior sicurezza e giustizia arriva dalle urne, dalle piazze, da giornaliste e giornalisti che mettono a rischio la propria incolumità nel nome dei valori di libertà e democrazia: “Dopo l’omicidio di Jan e Martina, abbiamo deciso di finire la storia che avevamo iniziato insieme, il nostro focus sulla ‘ndrangheta. Quindi andiamo avanti, il nostro impegno è mantenere viva la storia di Jano e mostrare che si può zittire un giornalista, ma non si possono zittire le storie”, ha affermato con determinazione Pavla Holcova.
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