Un reportage del 2011 rimasto nel cassetto, girato al seguito dell’Esercito italiano in missione di pace, apre una finestra sulla ricostruzione dei paesi balcanici dopo le guerre intestine.
I tappi alle orecchie, dall’aeroporto militare di Pratica di Mare a quello di Giacova, sul C27 dell’Esercito Italiano. Posti a caso, vite mischiate nel rumore assordante del viaggio: i militari che avevano appena lasciato mogli e figli a casa per tornare in Kosovo in missione, i giornalisti curiosi di osservare la ricostruzione del dopoguerra.
Rumore e pace, facce serene, volti di un’Italia pulita, foriera di futuro per molti che a un domani, un giorno, avevano smesso di crederci.
Non ci vuole molto coraggio né sprezzo del pericolo, a raccontare un conflitto ormai finito da più di 10 anni.
Ce ne vuole però, e pure tanto, ad affrontare le curve a gomito di un paese benedetto da Madre Natura e molto meno dalla Storia, là dove le bombe hanno lasciato il segno. Di edifici crollati e anime graffiate e bimbi orfani.
E occorre fiducia, per riscoprirsi italiani e guardare petto in fuori e occhi lucidi il tricolore sventolare tra i monti del Kosovo.
L’Italia e altri 28 Paesi Nato, con la missione KFOR, evolutasi come si è evoluto quel pezzo di terra traviato dal fuoco sacro dell’indipendenza, hanno garantito protezione e sicurezza ai luoghi più a rischio, presidiandoli giorno e notte, alla popolazione, alle comunità sia albanese che serba. Ed è nel grazie alla missione e ai suoi frutti, che il popolo kosovaro, senza distinzione di matrice ed etnia, è stato unanime.
A Villaggio Italia, tra le valli di Pec, era stanziato il Multinational Battle Group, cuore e base operativa di KFOR.
A Pristina invece la sede MSU dei carabinieri e l’ambasciata di Casa Italia.
Tante bandiere, mezzi militari, tende e brande da condividere. Sveglia alle 6, in un letto scomodo da rifare noi e loro, il rito sacro dell’alzabandiera, la marcia e poi la storia, a pelle nuda.
Fino a mezzanotte.
Tra i luoghi sorvegliati dai militari, il monastero di Visoki Dekani e il patriarcato di Pec. Religione ortodossa, cristiano cattolica e musulmana possono convivere, se si ha memoria del rispetto. Questo impari, al cadenzare del clepalo che raccoglie sotto le spoglie di Santo re Stefano i monaci, e all’incedere lento delle suore.
Ma proprio lì, dov’era silenzio e preghiera, era più forte il timore che certe divisioni tornassero bieche e mortali, di bombe e distruzione.
Niente più carrarmati in azione ma camionette in sosta, prezzo e compromesso tra passato e futuro.
La guerra fa soldi, il dopoguerra pure.
Ai diplomatici di EULEX, avamposto europeo di legalità, il compito delicato di controllare la criminalità locale, verificare l’equidistanza della magistratura, garantire la corretta circolazione delle merci e frenare gli appetiti delle mafie straniere. Prima fra tutte la ‘ndrangheta, sensibile all’affare del traffico di armi.
Bocche cucite, in EULEX come in ambasciata sulla fitta rete di connivenze tra le mafie, fondamentale ma sempre sul fil di lana, la collaborazione con le forze di polizia locali.
Il lusso occidentale lontano anni luce, dai volti scavati degli anziani e dalle strade piene di mercatini, pompe di benzina e odori di cucina.
Sui monti a guardia delle valli, le unghie di chi s’era aggrappato al sogno possibile di un futuro di pace.
La speranza, nei giovani universitari che avevano investito in cultura, per cambiare il loro paese.
E nella musica balcanica di radio Goradzeva, gioiello di libertà di un giornalista pertinace e senza padroni, Darko (“la situazione per i media è difficile, ma ce la faremo”, la sua profezia).
E poi tra le strade di Pristina e le parole di Bill Clinton impresse sul marmo, sotto la sua statua.
E ancora nei nastri bianchi e rossi degli sposi in festa.
Speranza, tra cimiteri e campi di sterminio, bandiere albanesi e serbe issate a un tiro di schioppo l’una dall’altra, per rimarcare differenze.
Ho visto la vita, e il domani migliore, negli occhi veri e allegri dei bambini della Caritas.
Orfani e abbandonati. Eppure felici, solo per aver sentito raccontare della felicità delle piccole cose.
Un piatto di riso con olive e basilico preparato da loro per dare il benvenuto agli “ospiti” italiani, treccine colorate da incrociare con i nastri e una musica per ballare.
Leggeri, puliti, fiduciosi bimbi della guerra.