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Il Forum è nato dalla giornalista Marilù Mastrogiovanni ed è organizzato da Giulia Giornaliste e dalla cooperativa IdeaDinamica, con l’obiettivo di “creare ponti, abbattere muri: promuovere una riflessione sul giornalismo delle giornaliste investigative, come presidio di Democrazia, dunque di Pace”.

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di Nurcan Baysal; traduzione a cura di Francesca Rizzo

Ieri sera mi ha telefonato un’amica che per molti anni ha ricoperto la carica di deputata nel parlamento turco ed è stata una politica benvoluta. Mi ha chiesto di cosa avrebbe bisogno in carcere, se dovesse essere arrestata. La settimana scorsa io sono stata arrestata a causa dei miei tweet contro la guerra ad Afrin, e ora anche lei si aspetta di essere arrestata. Le ho detto di preparare una piccola borsa con un asciugamano, le pantofole, lo spazzolino da denti, i farmaci e dei vestiti caldi.

In seguito ho ricevuto telefonate simili da altre persone che si aspettano di essere arrestate per essere contrarie alla guerra.

Ma io non sono sicura che questa “caccia alle streghe” contro i pacifisti porterà solo arresti.

Qualche giorno fa, sul canale musicale Kral TV, tra un video e l’altro, il conduttore Ali Şentürk ha detto: “La polizia dovrebbe sparare a chiunque è contrario alla guerra ad Afrin, che siano parlamentari, uomini d’affari o giornalisti”.

In un altro programma d’intrattenimento popolare, i conduttori hanno preso di mira 170 intellettuali che hanno firmato una lettera contro la guerra ad Afrin. Durante il programma, hanno letto il testo della lettera, frase per frase, mostrando le foto dei 170 firmatari. Hanno etichettato questi intellettuali come “traditori”, e hanno detto che questi traditori non hanno il diritto di vivere in questo Paese, che dovrebbero essere espulsi. Il contratto di lavoro di una firmataria è stato rescisso dall’Università, a causa della lettera.

Su “change.org” è stata lanciata una campagna contro i 170 “traditori”, perché venga revocata la cittadinanza turca a questi “amanti del terrore”. Io sono una dei “traditori” che hanno firmato la lettera, e davvero non so dove andare. Questo è il mio Paese, la mia terra, la mia casa, e io non voglio andar via. E sì, sono contro la guerra!

Qualche giorno fa, l’Unione dei Dottori Turchi (TTB) ha diramato una dichiarazione ufficiale, definendo la guerra “un problema per la salute pubblica” e criticando le ostilità ad Afrin. Due giorni dopo, e dopo che il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha definito anche i dottori “amanti del terrore”, si sono scatenate le minacce di violenza contro l’Unione. Martedì mattina la polizia anti terrorismo ha fatto irruzione nelle case di undici membri del TTB, comprese quelle del presidente, il dott. Raşit Tükel, e di altri membri del comitato centrale. Uno di questi è Şeyhmus Gökalp, un professionista molto noto e mio amico. Lo hanno prelevato dalla sua casa di Diyarbakır e lo hanno portato ad Ankara. Il giorno dopo il suo arresto, è stato licenziato dalla Diyarbakır Central Bank.

Questa reazione ha costretto la gente al silenzio, ma neanche questo mette al sicuro. Nei notiziari e nei programmi d’intrattenimento, artisti, star del cinema, cantanti e scrittori che mantengono il silenzio riguardo la guerra vengono presi di mira. Vengono criticati perché non dicono nulla a supporto della politica bellica del governo. Il loro silenzio è un’ammissione di essere a supporto della pace. Possono essere anche loro dei “traditori”!

Ieri Yasin Aktay, un parlamentare dell’AKP[1], ha scritto, in un articolo pubblicato sul giornale Yeni Şafak, che “essere contro la guerra è l’ideologia più ipocrita, disonesta e illogica del mondo”.

Tutti noi siamo in prigione, in Turchia. In questa prigione, “pace” equivale a terrorismo. Ogni giorno chi critica la politica del governo viene messo in prigione o obbligato a lasciare il Paese. Sembra buio ovunque, senza luce e speranza. Eppure solo pochi anni fa eravamo pieni di speranza.

Ad aprile del 2013 sono stata in una casa di Alipaşa, un quartiere povero di Diyarbakır. C’erano una donna e il suo figlio piccolo. Il processo di pace tra il governo turco e il PKK era appena iniziato. Mentre ne stavamo parlando, Azad (nome che significa “libertà” in Curdo), un bambino di 7 anni, giocava con una palla. Sul muro era appesa la foto di un ragazzo. Era la foto del figlio maggiore di Ayşe, Jiyan (“Vita”, in Curdo), membro del Partito dei Lavoratori Curdo (PKK), dichiarato fuorilegge. Ayşe credeva che quando fosse tornata la pace, sarebbe tornato anche suo figlio Jiyan. Credeva che avrebbe rivisto suo figlio entro un anno. Era piena di speranza, le brillavano gli occhi.

Mentre parlavamo della “pace”, Azad ha lasciato la palla per venire a chiederci: “Mamma, cos’è la pace?”. Quel bambino credeva che “barış”, la pace, fosse qualcosa che avrebbe riportato indietro il fratello che non aveva mai visto, e che conosceva solo dalle foto e dalle lacrime di sua madre. Pace significava il ritorno di suo fratello. In un Turco stentato, mi ha detto che “la pace tornerà, il fratello tornerà”.

Suo fratello non è tornato. Forse non è vivo. Azad sta ancora aspettando la pace.

Ieri sui social girava una vignetta. Una donna chiamava suo figlio: “Savaş, Savaş, torna a casa”. “Savaş” significa “guerra”, in Turco. Il bambino guardava la madre e chiedeva: “Mamma, perché mi chiami ‘Savaş’? Il mio nome non è ‘Savaş’, ma ‘Barış’”, un nome che significa “pace” nella lingua turca. Era spaventata persino a pronunciare la parola “pace”.

 

Oggi, in Turchia, la “pace” è vietata.

[1] Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, al governo in Turchia.

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