
Le due croniste condannate in Iran a 13 e 12 anni di reclusione solo per aver fatto il loro lavoro: erano state fra i primi a dare notizie dopo la morte di Mahsa Amini
Tredici e dodici anni di reclusione. E’ la pena cui sono state condannate il 22 ottobre scorso le giornaliste iraniane Niloofar Hamedi ed Elaheh Mohammadi, fra i primi ad aver dato notizia della morte e dei funerali di Mahsa Amini, il 22 settembre 2022. La sentenza è giunta dopo 13 mesi di detenzione preventiva, e si è abbattuta su Niloofar Hamedi proprio nel giorno del suo trentunesimo compleanno, quando stava per incontrare la famiglia in carcere.
Le accuse nei loro confronti erano di collaborazione con un governo ostile (gli Usa), cospirazione e collusione contro la sicurezza nazionale e propaganda contro il sistema. Ma in realtà sono state condannate solo per aver svolto il loro lavoro. Davanti alla Corte, entrambe hanno nettamente respinto le accuse affermando che non avevano fatto altro intento che compiere il loro dovere. Nell’ultima udienza del processo, il 26 luglio, Niloofar Hamedi ha affermato di essere “orgogliosa” del suo giornalismo. Elaheh Mohammadi ha dichiarato: “sono orgogliosa di sostenere la gente”.
I due distinti processi nei confronti delle colleghe si sono svolti a porte chiuse davanti alla sezione 15 della Corte rivoluzionaria di Teheran presieduta dal giudice Abulqasem Salavati, noto per la sua mano pesante contro il dissenso, senza adeguate garanzie per i diritti della difesa e nonostante le diffuse richieste per il loro rilascio. La sentenza prevede inoltre il divieto di svolgere attività giornalistiche, sociali e politiche per due anni dopo aver terminato di scontare la pena. Se confermata in appello, le due croniste dovranno trascorrere rispettivamente almeno sette e sei anni di reclusione.
Lo scorso ottobre, il quotidiano riformista Shargh aveva pubblicato una lettera aperta firmata da 200 giornalisti, scrittori e intellettuali iraniani che chiedevano il rilascio immediato delle due giornaliste.
Niloofar Hamedi, che lavorava per Shargh, era stata la prima a dare la notizia della morte di Jina Mahsa Amini, tre giorni dopo l’arresto della giovane curda da parte della polizia morale, pubblicando una foto dei genitori abbracciati nel dolore nell’ospedale in cui era ricoverata. Elaheh Mohammadi, del quotidiano riformista Hamihan, aveva seguito i funerali nella città curda di Saqqez, da dove sono partite le manifestazioni del movimento Donna Vita Libertà proseguite poi per mesi in tutto il Paese.
Il Committee to Protect Journalists (Cpj) ha calcolato che dall’inizio delle proteste sono stati arrestati un centinaio di giornalisti iraniani, tra i quali decine di donne. Nella maggior parte dei casi sono stati accusati di “propaganda contro il sistema” e “collusione in azioni contro la sicurezza nazionale”. Molti sono stati scarcerati su cauzione in attesa del processo o già condannati ad anni di carcere. Le pene previste dal codice penale per tali reati vanno da uno a cinque anni di reclusione, ma secondo il Cpj vari giornalisti sono stati condannati a detenzioni più lunghe, oltre che a frustate e al divieto di lavorare o di lasciare il Paese. Nel frattempo gli arresti di giornalisti continuano.
Insieme alla giornalista Narges Mohammadi – che sta scontando una lunga pena detentiva e di recente è stata insignita del Premio Nobel per la Pace – le due croniste hanno intanto ricevuto il premio Unesco per la libertà di stampa intitolato a Guillermo De Cano. Un appello per la loro liberazione era stato già lanciato l’anno scorso, al governo e al presidente iraniani, dal 7° Forum delle Giornaliste del Mediterraneo. Un appello che viene ora rinnovato dallo stesso Forum, a Bari da 22 al 24 novembre 2023.
